“Un profondo sentimento di gratitudine per queste vite, per ciò che hanno significato per la Comunità di Pace, per la società, per il Paese. Uniamoci a tutte le vittime dell’America Latina” sono le prime parole del sacerdote gesuita e difensore dei Diritti Umani, Javier Giraldo, all’inizio della celebrazione del 18° anniversario del massacro di Mulatos e Resbalosa. Otto furono le persone assassinate e i loro corpi fatti a pezzi, sette di loro appartenenti alla Comunità di Pace. Quattro di loro erano minori, il più piccolo aveva solo 18 mesi: “sarebbe, crescendo, potuto diventare un guerrigliero oppure riconoscerci” sono le motivazioni, rivelate alcuni anni dopo in aula di giustizia, del paramilitare che confessò l’omicidio.
Tra loro, fu trucidato anche Luis Eduardo Guerra, allora leader della Comunità di Pace, padre di tre figli e una figlia. Il maggiore, Deiner di 11 anni, fu assassinato assieme a lui, sgozzato.
Chi era Luis Eduardo e perché tanta commozione, ancora oggi, dopo 18 anni?
Javier Giraldo lo descrive come una persone senza grandi titoli educativi, una persona del popolo, che visse una storia di violenza, di oppressione, di persecuzione, di esclusione di tutta una massa popolare. Ma, nonostante ciò, una forza di resistenza impressionante lo avvolge sino ad arrivare a mettere la sua faccia davanti a tutti, ad offrire le sue spalle a coloro che volevano colpirlo, a sfidare gli altri perché sapeva di essere vicino alla fonte della giustizia, dove nessuno avrebbe potuto condannarlo: “No, io metto la mia faccia davanti a chiunque, so di avere ragione, ci devono lasciare raccogliere il nostro cacao”. Con questa convinzione è andato avanti, nonostante la situazione si fosse fatta per lui estremamente pericolosa.

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Sono arrivata da un mese ormai eppure mi sembra di aver appena messo piede in questo posto.
Ho appena incominciato a capire chi è chi e ancora, spesso, mi capita di incontrare qualcuno e di domandarmi se mi sia già stato presentato, perché non me lo ricordo proprio.
Qui le giornate iniziano presto, seguendo i ritmi dettati dalla “naturaleza”; mi sveglia il sole che penetra dalle fessure della nostra casa di legno, il chicchirichì del gallo (che non fa molto testo, perché canta ad ogni ora del giorno e della notte) e la musica allegra che qualcuno mette alla radio preparandosi per la giornata.
E mentre fuori casa la Comunità prende vita, se non ci sono accompagnamenti o incombenze particolari, io me ne resto nel letto a dormicchiare godendomi tutti questi suoni.
Quando verso le 7.30 mi alzo, la giornata dei miei vicini è già nel pieno della vita.
I bimbi sono già a scuola da un bel po’ e poi c’è chi è partito per andare a lavorare in una finca vicina, anche a qualche ora di cammino o di mula e chi in città a fare commissioni.
Solo papere, galline, cani, gatti e maiali che gironzolano nell’erba tra le case.
Il pomeriggio, mi siedo fuori casa dove c’è un tavolo con sgabelloni di legno tutti colorati e qualcuno passa sempre a fare quattro chiacchiere o, con il mio spagnolo sgangheratissimo, ci prova.
Mi chiedono se mi piaccia stare qui, o se nell’accompagnamento di qualche giorno fa io sia cascata dalla mula e allora si ride assieme mentre provo a raccontare che no, miracolosamente non sono caduta, ma camminando laddove con la mula era troppo pericoloso, il mio stivale è rimasto svariate volte incastrato nel fango e allora M., che non mi perdeva di vista e mi ha aspettata pazientemente per tutta la strada, me lo ha tirato fuori.

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“Hanno provato a seppellirci, non sapevano che eravamo semi”.
Questo motto è divenuto, in America Latina, una vera e propria bandiera, portata durante proteste e manifestazioni.
Dal Messico dove fu coniata e gridata dalle madri in cerca dei loro figli “desaparecidos”, alle strade del Cile durante le proteste giovanili, fino ancora alle piazze dove, instancabili, cercano giustizia i leader sociali e i difensori dell’ambiente: queste parole arrivano dentro e spaccano la crosta della nostra apatia.
Con questa frase potente, posso descrivere e fare sintesi di ciò che è stato trasmesso durante il VII Foro Internazionale della Nonviolenza nel Quindio. Decine di invitati, tra cui alcune persone della Comunità di Pace di San José di Apartadò, hanno raccontato cosa significa resistere nel territorio martoriato da guerre e interessi economici.
Le testimonianze scorrevano fluide, ma piene di emozioni, paure e speranze… anche lacrime.
Molti di coloro che hanno parlato della loro storia e vita sono minacciati, perseguitati; alcuni sono stati costretti a lasciare il proprio Paese per non essere uccisi.

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Una lunga fila indiana di persone, muli, cavalli e cani cammina unita per raggiungere un villaggio nascosto in cima alla selva colombiana: sono i membri della Comunità di Pace che all'unisono e alla spicciolata si spostano per ritrovarsi tutti in un unico luogo designato per l'Assemblea Generale.
Siamo in tanti noi internazionali che accompagniamo questa carovana umana, sempre attenti a stare al passo del suo leader.
La strada mi sembra meno faticosa e lunga di altre volte e questa sensazione è sicuramente legata al fatto di essere in molti e di condividere le difficoltà; perché in Comunità di Pace todo se comparte, dalle azioni nonviolente al cibo e alle amache.
Quando arriviamo a destinazione, alla fine di una fangosa salita, un orizzonte inimmaginabile si staglia di fronte ai nostri occhi: è il Golfo dell'Urabà che si apre in fondo alle montagne sovrastate da foreste e sotto a un cielo plumbeo, ma contemporaneamente avvolto dal chiarore del tramonto.

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Pareti di fango in salita e in discesa, sulla mula o a piedi, per ore e ore, senza sapere quale sarà il prossimo ostacolo, con il rischio di scivolare o di cadere, senza sapere se chi si incontra sul cammino è un volto amico o nemico, se sorridere o glissare.
Meglio glissare sempre, nel dubbio.
Livello di concentrazione sul cammino molto alto.
Occhio attento a non perdere i compagni di viaggio e soprattutto chi accompagniamo che è altrettanto attento a non perdere di vista noi, non solo perché la nostra presenza aumenta il loro livello di sicurezza ma anche per premura nei nostri confronti.
Noi che non siamo avvezzi a questo genere di percorsi, a questo genere di clima e che ignoriamo i rischi nascosti dalla selva.
Nonostante il pensiero ulteriore che rappresentiamo per le persone della Comunità di Pace, abituate a “volare” sul fango e a correre su questi ardui e infiniti cammini, continuiamo a essere un notevole valore aggiunto per loro.
Non mancano di ripetercelo a ogni sosta “grazie che ci accompagnate, grazie che ci accompagnate”.
E a me continuano a sembrare eroi, non per mitizzare, ma per essere onesti e per rendere reale una parola che ormai, in questo mondo, ci sembra possa essere riempita soltanto di significati virtuali ed effetti speciali.

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