Anwar al-Bunni, avvocato siriano per i Diritti Umani nel Processo a Coblenza

 “Una volta, in un discorso in TV, ho detto che io amo questo Paese e gli sono molto grato per avermi accolto, ma non ho nessuna intenzione di integrarmi né di imparare il tedesco. Il Perché? È molto semplice: perché io voglio tornare a casa mia, in Siria”.

Ci ha detto così Anwar al-Bunni, durante un incontro nel suo ufficio di Berlino.
La mia reazione d’istinto sarebbe stata quella di sobbalzare dalla sedia e precipitarmi a tappare le orecchie ad Abdo, che è da poco in Italia ed era lì con noi, di dirgli di non ascoltare perché lui invece la nostra lingua la deve imparare per poter avere una vita decente in Italia, trovare un lavoro ecc, ecc.
Ma dentro di me sapevo benissimo che Anwar aveva ragione, come lo sa anche Abdo, che anche da qui continua a spendersi ogni giorno per la sua gente e per il suo Paese. Perché accogliere queste persone è giusto, ma non basta e forse serve a ben poco se non accogliamo anche le loro lotte e la loro voglia di giustizia e di riscatto.

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Intorpidita:
Beirut sembra avvolta da un grigio torpore, e con lei chi la vive.
I primi giorni facciamo fatica a riconoscere la città, di solito molto frenetica e caotica.
Le strade sono svuotate e piene di vetri per terra, anche in zone molto lontane dall’esplosione.
Le persone si sforzano di sorridere, ma la stanchezza che si trascinano addosso si percepisce.
E ci contagia.
Non facciamo particolari sforzi durante il giorno, ma al rientro in casa la sera sentiamo sempre una stanchezza di cui non capiamo la ragione.
“Andiamo in giro e vediamo i segni della morte, sentiamo il suo odore. Facciamo finta che tutto questo sia normale, ma non lo è”.

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In questi giorni, come volontari di Operazione Colomba a Beirut, siamo al fianco di ragazzi e ragazze che, organizzatisi in una rete di solidarietà, portano cibo, medicine e aiuti per la ricostruzione a centinaia di persone in difficoltà e abbandonate a se stesse. Sosteniamoli!

“Questa zona era il fiore della città, il fiore nel cuore di Beirut. E guardate adesso...”.
Ci dice così un signore di Tripoli che non vede moglie e figlia da un anno, da quando è sceso a Beirut per lavorare, vivendo nello stesso posto in cui c’era il cantiere.
Il cantiere era qui davanti, a dove lo abbiamo incontrato, ora lui siede accanto a un negozietto che fa caffè e guarda l’edificio che è ancora in piedi ma ha subito grossi danni, non si sa quando potranno ripartire i lavori.
Siamo a Gemmayzeh, il quartiere dai palazzi antichi e locali notturni, siamo passati sotto la vecchia casa dove ho vissuto qualche anno fa durante il periodo universitario: rimane ancora bellissima, anche se gli infissi sono totalmente saltati, almeno la struttura resta in piedi, così come i balconi.

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Abbiamo conosciuto Mussab in una giornata lunga e travagliata, in un reparto ospedaliero situato in uno dei quartieri più poveri e marginalizzati della città di Tripoli, governatorato del nord Libano.
C’è voluto del tempo, molti sforzi e infinito impegno, ma grazie a una rete di solidarietà, composta da decine di persone e organizzazioni, a Mussab è stata data la possibilità di venire a curare in Italia, a Genova, il male che lo stava opprimendo.
È l’inizio di una storia di coraggio, desiderio e cambiamento, di cui alleghiamo qui sotto un altro capitolo.


Oggi Muss, come lo chiamiamo noi, ha discusso il suo elaborato concludendo il suo percorso alla Scuola Secondaria di Primo Grado.
E’ stato un colloquio pensato per lui… e lui ci ha messo intelligenza e cuore!
E noi alla fine, commossi, non riuscivamo neppure a parlargli e a salutarlo.

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