Ricordo quando un anno fa ci hanno raccontato che era tornato nel suo Paese, per vedere cos’è che ne restava. In poco meno di un’ora era già stato preso e incarcerato, sotto un interrogatorio fatto più di torture che di domande.
Ne abbiamo parlato con i parenti che non si spiegavano come avesse potuto decidere di mettere piede in Siria, e insieme il primo pensiero comune che ha aleggiato nella stanza senza farsi parola è stato: è perso, non tornerà. Un altro uomo nel buco nero della moltitudine dei dispersi, coloro di cui non si saprà più nulla, “eza mayet aw tayeb”, se sono morti o vivi.
E invece eccolo, davanti a me che mi racconta per filo e per segno tutto ciò che gli è accaduto, a partire dal fatto che lui aveva giurato al padre sul letto di morte che non sarebbe mai tornato in Siria finché non ci sarebbe stata sicurezza per il rientro, ma che con l’inganno lo hanno condotto al di là del confine.
Dopo quel momento ha passato 7 mesi tra botte, torture disumane e umiliazioni disumanizzanti, il primo periodo in innumerevoli corpi della sicurezza di Stato, l’ultimo periodo facendo il servizio militare obbligatorio, dopo che per anni era riuscito ad evitarlo nascondendosi in Libano.

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Il campo mi pare un caleidoscopio unico di umanità.
Intanto dell'umanità propria.
Una delle lenti di questa osservazione è la noia.
Noia proveniente dal silenzio della sera e della notte, specie d'inverno.
Specie in queste sere sfigatissime in cui neanche l'operatore telefonico riesce a funzionare come si deve e a garantire la connessione a internet, l'unica (sic) "finestra sul mondo", soprattutto su casa.
Sere e notti in cui il freddo butta tutti dentro, ognuno nella sua tenda ad appallottolarsi sul materasso e sotto le coperte se ci sono, oppure accanto a mamma e papà e alla cucciolata di fratelli e sorelle che ci sono di sicuro.
Chi ce l'ha (non molti, non pochi), per un po' può guardare la tv, poi anche quella annoia ed è meglio spegnerla, non sia mai che tenga svegli i bambini più del necessario.
Comunque nel dubbio, l'elettricità salta tra le undici e mezza e mezzanotte fino al giorno dopo e sceglie lei (l'assenza di) la prossima attività per tutti.
E così, se il freddo spinge sotto la coperta e le viuzze melmose di pioggia e fango del campo si svuotano, viene l'ora del silenzio, in cui neanche gli incontri dei vicini vengono in soccorso a interrompere la monotonia.
Quanto sarà grande questo silenzio senza alternative?
Da qui a Tel Abbas? O da qui ad Halba? Bebnin?
Non so, di sicuro a Tripoli anche a quest'ora ci dev'essere ancora a zonzo qualche alternativa.

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Brano tratto da: “Crinali” di Elona Aliko, in “Basta un vento lieve”, collana DiMMi, Terre di mezzo, Milano, 2021.

Tel Abbas, 25 settembre.
Nel pomeriggio sono andata a trovare Walid, abita due baracche distante dalla nostra.
Ha costruito una specie di veranda fuori dalla sua tenda, quattro pali di legno e un nylon bianco rovinato dalle piogge e dal vento. Ci sono un tavolo in plastica e quattro sedie. Era solo e ho deciso di fargli compagnia. Mi piace molto parlare con lui, è un uomo saggio, figlio di uno Shaikh[1]. Mi aiuta a comprendere tante cose e situazioni che fatico a capire.
Walid è un uomo molto forte, nel suo grembo porta le ferite della guerra, di una bomba. Ha una stomia, porta un sacchetto per stomizzati per i suoi bisogni. Quando non riusciamo a procurargli i sacchetti adatti sua moglie glieli cuce con la stoffa; ma la stoffa gli procura infezioni alla ferita. Malgrado la sua condizione fisica è sempre sorridente, socievole e accogliente.
Ho voluto chiedere a Walid cosa si prova a non essere voluti dal proprio Paese, ma mi sono pentita subito dopo. Ho visto le lacrime scendere dai suoi occhi, con la voce rotta dal magone, mi ha detto che desidera tanto tornare in Siria, nella sua terra, nella sua casa. A Walid questa guerra ha portato via un figlio di 17 anni, Mohammad, e la dignità. Ha iniziato a evocare il vissuto in quella terra lontana ormai, a 5 km in linea d'aria da dove siamo seduti, irraggiungibile. Parlava e piangeva. Parlava, piangeva e sorrideva quando i ricordi erano felici. Ero commossa.

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Mentre scriviamo questo aggiornamento dal campo dalla Valle della Bekaa, il Libano sta vivendo un nuovo aumento delle tensioni sociali, a causa dell’oscillazione impazzita del valore del dollaro rispetto alla lira libanese e alla conseguente inflazione galoppante dei prezzi di beni di prima necessità, in particolare pane e carburante.
Il 14 gennaio questa tensione si è manifestata con l’ennesima “Giornata della Rabbia”, nata da uno sciopero generale indetto dai sindacati dei trasportatori, che ha messo in tilt il Paese con blocchi stradali, chiusure delle pompe di benzina e code ai panifici, a volte presidiati da camionette dell’esercito.
Dalla gente che incontriamo, sentiamo che in alcune zone vicino a dove ci troviamo, il pane viene razionato per le famiglie.
Così, le persone scendono in piazza per chiedere al governo di sussidiare il carburante e i beni di prima necessità, per rispondere alla svalutazione galoppante della moneta nazionale, che ha ormai perso il 95% del suo valore in poco più di due anni.
Oggi, riempire la tanica del gasolio costa più del salario minimo mensile, che ormai vale l’equivalente di 20$.
Secondo il World Food Program, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari rispetto allo scorso autunno è del 557%.
Ma come si incarnano questi numeri, che descrivono quantitativamente una crisi economico-finanziaria tra le più gravi al mondo?
Noi volontari di Operazione Colomba ne siamo testimoni attraverso il contatto con le paure e l’insofferenza palpabile della gente.

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Con l'acuirsi della crisi economica senza precedenti che investe il Paese, Beirut è diventata una città assai più pericolosa del passato.
A rivelarlo è uno studio della società di analisi beirutina "International Information" sull'aumento delle attività criminali nella capitale libanese.
Secondo questa ricerca, nei primi dieci mesi del 2021 i furti nelle abitazioni sono aumentati del 266% rispetto allo stesso periodo del 2019, gli omicidi sono cresciuti del 101%, mentre i furti di auto sono saliti del 212%. Lo stesso istituto di ricerca riporta che circa 200mila libanesi sono fuggiti dal loro Paese al collasso economico negli ultimi due anni. Accanto a un tipo di migrazione di profughi libanesi, siriani, iracheni dalle sponde mediterranee del Libano verso Cipro, si sono registrate dall'autunno del 2019 circa 160mila partenze di libanesi della classe media, emigrati verso destinazioni considerate meno usuali, come Turchia, Georgia e Armenia. A questa situazione si aggiunge il fatto che secondo alcune stime, il 63% dei libanesi vorrebbe seguire questa tendenza e lasciare il Paese.

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