È il 20 ottobre e siamo in macchina in viaggio verso Arsaal.
Arsaal: 130 mila persone, di cui i tre quarti sono siriani, organizzati in 160 campi profughi informali, cioè non riconosciuti dallo Stato, e per accedere all'area, militarmente protetta, è necessario un permesso.
Al di là del finestrino vediamo il paesaggio cambiare.
Avvicinandoci al confine nord-orientale del Libano, le pianure e gli altipiani alle nostre spalle lasciano spazio a terre ondulate colorate di ocra.
La terra è secca e le creste brulle sullo sfondo sono già in territorio siriano.
Ingraniamo una marcia più corta e mentre ci avviciniamo all'ingresso della città, prepariamo passaporto e permesso personale di accesso alla zona.
Arriviamo al posto di blocco, un militare con un cenno di capo ci fa segno di proseguire.
La strada scollina e davanti a noi si apre, leggermente più in basso il centro abitato di questo grande villaggio.

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Da circa tre settimane sono in Libano con Operazione Colomba.
Qui condividiamo la quotidianità delle famiglie siriane che vivono al campo profughi di Tel Abbas, nella regione di Akkar, a nord del Paese, a circa 5 km dal confine con la Siria. Inizialmente mi ero fatta lo scrupolo di aspettare di capire qualcosa del contesto che mi ospita, prima di condividere qualche riflessione.
Poi mi sono resa conto che, più il tempo passa, più le tessere di mosaico che si aggiungono, complicano il quadro, rendendo sempre più complessa ai miei occhi la comprensione della situazione. Consapevole quindi che una vita non mi basterebbe per capire; che non sono qua per capire, ma per condividere un pezzo di cammino con questo popolo e che per questo viaggio non sono partita da sola, desidero prestarvi i miei occhi, orecchie, naso, bocca e tatto… nella speranza che due parti della stessa umanità possano sfiorarsi.

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Colpevoli per aver creduto nella vita.
Dopo esser scappati, torturati, rinnegati e perseguitati per aver chiesto libertà, un'altra nuova forma di violenza si affaccia tra le finestre delle loro tende.
La fame è arrivata.
Il Libano è al collasso economico.
Non c'è cibo e tutto costa non il doppio ma dieci volte di più di un anno fa.
Tra gli incroci sparatorie per la compravendita di benzina al mercato nero, non ci si muoveva per paura degli arresti arbitrari, ora non si esce perché prendere un pulmino collettivo è troppo costoso e spesso si sta in fila per ore in attesa della benzina.
La Siria ancora martoriata, è governata dai signori della guerra, elezioni poco democratiche che tolgono anche le ultime speranze di un ritorno sicuro tra le pietre delle case demolite.
Gli uomini arrivano dalle prigioni come morti che camminano che non sanno più vivere senza violenza, muoiono di paura.
I bambini erano l'unica espressione della forte convinzione che la vita e l'amore tutto possono, che la luce che porta una nuova vita, annienta il nero tenebroso della violenza.

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Se ci fosse uno strumento, tipo un super termometro, per misurare la fiducia dei siriani in libano nei confronti del governo attuale in Siria, le temperature sarebbero artiche.
Nessuno crede alla possibilità di elezioni libere dopo 10 anni di guerra, pulizia etnica, menzogne e violenze.
Non vediamo motivi per crederci noi...
Ne parliamo con H.
È una donna decisa, forte, una madre single.
Le facciamo qualche domanda.
Sorride, lo sguardo si posa sui figli.
"Penso solo che non sia giusto, come si può pensare che sia giustizia eleggere il capo di uno Stato che ci ha perseguitato? Come si può credere che in un Paese con milioni di sfollati possa essere ancora democratica un'elezione? Come posso fidarmi di chi ha ucciso i miei fratelli e distrutto la mia casa?".

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