Una tenda buia, una fioca luce di una lampada ricaricabile, un bambino di circa due anni seduto per terra mentre mangia con la faccia nel piatto, il suo viso ha mille colori.
Il colore della sua storia, della sua genealogia, il colore della polvere del campo, il colore dei fazzoletti per il naso inesistenti, il colore dell'unto che arriva prima sul naso e poi in bocca.
Non lo so se ho mai visto una violenza così piena.
I piedi senza calze correndo sulle pietre appuntite, i pantaloni troppo grandi e le mutande che ti aspetti di vedere ma qui costano troppo, mentre fuori piove e c’è l’aria gelida delle montagne innevate.
C’è una legge che restituisce i giochi, le coperte rimboccate, il bacio prima di andare a scuola, il fiocco sul grembiule, le favole della buona notte e tutta la tenerezza che ti spetta da bambino?
Chi penserà a rimborsare con una carezza ogni mano pesante ricevuta sul viso?
Che uomini diventano quelli che bambini non sono mai stati?
Mentre ci penso, penso al vuoto di quella tenda, la risposta a queste domande mi toglie il respiro.
La strada di queste piccole donne e di questi piccoli uomini dagli occhi grandi, sporchi oltremodo, che ti abbracciano, gridano, cantano “bella ciao” passando davanti la nostra tenda, che un minuto giocano e quello dopo piangono per le mazzate, la strada che intravedo mi toglie il sonno.
In questa notte, quella tenda, quella faccia nel piatto, tutte le guerre che iniziano o continuano, tutte le persone in transito, le carceri pieni di dimenticati, le torture, tutte le frontiere chiuse, tutti i salotti pieni di opinionisti, è tutto più forte del fragore di questa pioggia che cade senza sosta su questa tenda.
Una tenda buia, una fioca luce di una lampada ricaricabile, un bambino di circa due anni solleva la faccia dal piatto in cui stava mangiando e nonostante il puzzo, sento il profumo della meraviglia luminosa dell’infanzia, vorrei che il mondo si fermasse ora e che quel sorriso inconsapevole restasse lì per sempre.

Mi sembra di percepire che quello che ti brucia dentro e che ti accompagna a letto la sera quando la giornata è finita, spesso non sia lo sguardo di complicità, reciproca appartenenza, sollievo, felicità di coloro cui stiamo accanto, che riusciamo ad aiutare migliorandone la condizione, o addirittura quando si tratta di salute, ne salva la vita.
Quello che spesso resta per sempre impresso nella memoria è lo sguardo e la voce di coloro a cui bisogna dire che non puoi fare niente per dare una mano, perché in quel caso, in quel momento, non c'è niente da fare.
Resta la sensazione, pastosa come una colla stantia, della propria espressione quando, dai suoi angoli, trapela la vergogna, la delusione, l'indignazione, la rabbia, il dolore verso le circostanze che fanno sì che ci si ritrovi a ricoprire il ruolo di chi dà quella risposta.
Ci vuole stomaco per sopportare quel momento, per riuscire a farlo sostenendo quello sguardo, trasmettendo ancora l'empatia e la vicinanza a cui però in fondo si sente di aver perso un po' il diritto, agli occhi dell'altro/a, nel momento in cui si è impersonato quel ruolo.
Stomaco, forza d'animo, e una grande, sfacciatissima speranza.
Dove trovare questa speranza e come ricordarsi del senso che ha, quando la difficoltà del momento fa percepire la speranza come quasi "fuori luogo"?
Grazie a questi primi mesi di cammino con la Colomba, comincio a scoprire che può esistere un metodo per riuscirci, che però ha senso solo se condiviso.

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Quanti giorni sono passati?
Il tempo scorre a velocità diverse, come si fa a riempirlo tutto?
Ho l’impressione di pressare il tempo, come in un sottovuoto, farne entrare altro, sempre di più.
Ci si abitua mai al tempo denso?
Al tempo che una settimana sembra un mese?
Penso ai giorni che passano senza che accada nulla, ai giorni di cui non ti ricordi.
Da questa parte del mondo qui, ogni giorno te lo ricordi come se fossero almeno cinque diversi, perché non è possibile che in un giorno possano entrare tutte queste cose qui.
In un giorno non ci può stare un viaggio che costeggia il mare in un tempo d'immensità, un arrivo ai piedi delle vette innevate che non conoscono differenze ne confini geografici, un corpo piegato su stesso, un capo che fatica ad alzarsi, degli occhi che non vedono più orizzonti, una mano su una gamba come un ponte, un attimo per tenersi negli occhi.
Vorrei poterle dire che dopo 31 anni la vita ha ancora tante cose da regalare, che lì fuori ci stanno territori verdi e prati in cui sdraiarsi di notte a guardare le stelle, che quelle restano lì e che nessuno può togliercele, che c'è ancora modo per raddrizzare la schiena nonostante tutto.
Il tempo è troppo ma è troppo poco per dirglielo, non ci sono parole o forse qualcuno le ha già trovate “mamma non piangere, devi solo sorridere”.
Questo tempo è denso, e ogni attimo è come un’eternità in tutta questa umanità che si trova.

I.

Ricordo quando un anno fa ci hanno raccontato che era tornato nel suo Paese, per vedere cos’è che ne restava. In poco meno di un’ora era già stato preso e incarcerato, sotto un interrogatorio fatto più di torture che di domande.
Ne abbiamo parlato con i parenti che non si spiegavano come avesse potuto decidere di mettere piede in Siria, e insieme il primo pensiero comune che ha aleggiato nella stanza senza farsi parola è stato: è perso, non tornerà. Un altro uomo nel buco nero della moltitudine dei dispersi, coloro di cui non si saprà più nulla, “eza mayet aw tayeb”, se sono morti o vivi.
E invece eccolo, davanti a me che mi racconta per filo e per segno tutto ciò che gli è accaduto, a partire dal fatto che lui aveva giurato al padre sul letto di morte che non sarebbe mai tornato in Siria finché non ci sarebbe stata sicurezza per il rientro, ma che con l’inganno lo hanno condotto al di là del confine.
Dopo quel momento ha passato 7 mesi tra botte, torture disumane e umiliazioni disumanizzanti, il primo periodo in innumerevoli corpi della sicurezza di Stato, l’ultimo periodo facendo il servizio militare obbligatorio, dopo che per anni era riuscito ad evitarlo nascondendosi in Libano.

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Il campo mi pare un caleidoscopio unico di umanità.
Intanto dell'umanità propria.
Una delle lenti di questa osservazione è la noia.
Noia proveniente dal silenzio della sera e della notte, specie d'inverno.
Specie in queste sere sfigatissime in cui neanche l'operatore telefonico riesce a funzionare come si deve e a garantire la connessione a internet, l'unica (sic) "finestra sul mondo", soprattutto su casa.
Sere e notti in cui il freddo butta tutti dentro, ognuno nella sua tenda ad appallottolarsi sul materasso e sotto le coperte se ci sono, oppure accanto a mamma e papà e alla cucciolata di fratelli e sorelle che ci sono di sicuro.
Chi ce l'ha (non molti, non pochi), per un po' può guardare la tv, poi anche quella annoia ed è meglio spegnerla, non sia mai che tenga svegli i bambini più del necessario.
Comunque nel dubbio, l'elettricità salta tra le undici e mezza e mezzanotte fino al giorno dopo e sceglie lei (l'assenza di) la prossima attività per tutti.
E così, se il freddo spinge sotto la coperta e le viuzze melmose di pioggia e fango del campo si svuotano, viene l'ora del silenzio, in cui neanche gli incontri dei vicini vengono in soccorso a interrompere la monotonia.
Quanto sarà grande questo silenzio senza alternative?
Da qui a Tel Abbas? O da qui ad Halba? Bebnin?
Non so, di sicuro a Tripoli anche a quest'ora ci dev'essere ancora a zonzo qualche alternativa.

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