
Ricordo quando un anno fa ci hanno raccontato che era tornato nel suo Paese, per vedere cos’è che ne restava. In poco meno di un’ora era già stato preso e incarcerato, sotto un interrogatorio fatto più di torture che di domande.
Ne abbiamo parlato con i parenti che non si spiegavano come avesse potuto decidere di mettere piede in Siria, e insieme il primo pensiero comune che ha aleggiato nella stanza senza farsi parola è stato: è perso, non tornerà. Un altro uomo nel buco nero della moltitudine dei dispersi, coloro di cui non si saprà più nulla, “eza mayet aw tayeb”, se sono morti o vivi.
E invece eccolo, davanti a me che mi racconta per filo e per segno tutto ciò che gli è accaduto, a partire dal fatto che lui aveva giurato al padre sul letto di morte che non sarebbe mai tornato in Siria finché non ci sarebbe stata sicurezza per il rientro, ma che con l’inganno lo hanno condotto al di là del confine.
Dopo quel momento ha passato 7 mesi tra botte, torture disumane e umiliazioni disumanizzanti, il primo periodo in innumerevoli corpi della sicurezza di Stato, l’ultimo periodo facendo il servizio militare obbligatorio, dopo che per anni era riuscito ad evitarlo nascondendosi in Libano.