Quando è da tanto che non abbracci una persona cara e poi finalmente te la trovi davanti e puoi tornare a farlo, l’emozione è fortissima, ovunque ci si trovi su questa tonda terra.
“Mi accompagnereste a trovare Mariam? Avrei così tanto voglia di vederla… ma non oso andare da sola, ho troppa paura di quel che potrebbe accadere. Ma se ci foste voi, sarebbe diverso…”.
A volte capita che noi volontari ci sorprendiamo amaramente di quanto in un luogo già così pieno di dolore, spesso le relazioni diventino ancora più complicate e conflittuali, come se già le condizioni esterne non bastassero a rendere la vita dura.
Randa è incastrata nello stesso campo profughi da 8 anni. Siriana di Bab Amer, quartiere periferico e sovrappopolato di Homs, Randa ha sulle spalle 3 bambini, il più grande di questi, a seguito di una meningite, è rimasto paralizzato, mentre la quarta figlia, unica femmina, è morta affogata in un tombino del campo profughi qualche anno fa.

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Sono grata per i momenti di “grazia”, in cui i veli di pregiudizi, giudizi e incomprensioni sopra le persone vengono sollevati e si mostrano altre parti di loro che erano sconosciute e non contemplate fino a quel momento.
Con lei è successo così.
Il velo è sollevato grazie ad un invito a cena un po’ inaspettato, giudicato da me con malizia per dovere di facciata, e ci ritroviamo qui a riconoscere H., donna che ha sulle spalle 4 figli (una quinta si è sposata già da minorenne) e si è vista portare via il marito dai militari siriani; è rimasta da sola, sfollata tra gli sfollati di Homs.
Il figlio, unico maschio in casa, ci racconta di come a 7 anni è entrato in casa della zia e ha trovato tutti morti.
La sorella, che aveva pochi anni in più, racconta di come ha camminato su corpi e corpi morti da un bombardamento, mentre scappavano dall’ennesimo rifugio che avevano trovato.
Il figlio a pochi metri di distanza da sé ha visto cadere un razzo su una signora incinta che portava un passeggino, vedendola letteralmente esplodere... il figlio in grembo morto per terra subito dopo.

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Tu hai paura.
Hai delle occhiaie scavate, fatte di più strati, e tua moglie svela subito ciò che sembra comunque chiaro: non dormi la notte, stai sveglio fino all’alba, poi dopo la preghiera del mattino vai a letto ancora per due ore e poi ti svegli per vedere i due vostri bambini più piccoli andare a scuola.
Tutta la notte la passi sul balcone, a guardare ogni tanto giù, a bere caffè e fumare una sigaretta dopo l’altra.
Ne hai sempre una in mano, forse speri che sia una di queste a ucciderti prima che riescano ad arrestarti e farti scomparire senza processo in qualche carcere del Paese.
Da più parti in pochi giorni la pressione su di te è salita alle stelle, ti sei ritrovato in una morsa stretta che ti sta soffocando, dalla quale davvero né tu né noi sappiamo come liberarti.

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Diario, 4 marzo 2021, Tel Abbas

Ieri abbiamo fatto meditazione insieme con il Diario di Etty Hillesum, e ho pensato alla “lotta interiore”.
Questa espressione, alla quale non si riesce a dare un contenuto a parole, che sembra molto astratta, per me ieri ha preso concretezza nei pensieri.
Ho sentito concretamente qual è la nostra lotta qui.
Adesso come volontarie e volontari in Libano nella quotidianità non appoggiamo un comitato di lotta popolare, né una comunità di pace già composta. La lotta interiore è quella personale, giornaliera, che si compie qui per tenere aperto uno spiraglio e che ci tiene collegati a noi stessi insieme a quelli intorno a noi, ognuno a suo modo nel proprio percorso.
Lottiamo contro il senso comune di abbandono, di solitudine, di buio ad ogni angolo. Lottiamo contro chi dice che queste persone resteranno qui per sempre, non importa se nelle tende o in qualche scantinato umido.

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Martedì 27 aprile alle 18:50, in diretta Facebook e Youtube, prosegue l’appuntamento settimanale con la rassegna web “Sette meno dieci” (*).
Ospiti di questa "puntata", condotta da Gabriella Morelli e Pierpaolo Lala, Anwar al-Bunni (avvocato siriano specializzato in Diritti Umani), Shady Hamadi (scrittore e attivista italosiriano), Marta Serafini (giornalista Corriere della Sera) e Alberto Capannini (Operazione Colomba).

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