Il 10 Marzo all ore 11.00 del mattino, un gruppo di 30 coloni armati proveniente dall’avamposto israeliano illegale di Havat Ma’on ha fatto irruzione nel villaggio palestinese di At-Tuwani.
Un numero consistente (più di 20) di soldati e poliziotti israeliani si sono presentati sul posto, il loro intervento però si è rivolto unilateralmente a favore dei coloni israeliani i quali sono rimasti all’interno del villaggio per ore.
In risposta a tale atto violento i palestinesi del villaggio supportati da attivisti israeliani e internazionali hanno cercato di respingere l’attacco ingiustificato e di difendere le proprie case. A tale azione di resistenza popolare nonviolenta hanno partecipato anche donne e bambini.

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Le stelle non tradiscono mai e il cielo è sempre uno spettacolo qui.
Questa sera a Sarura i colori aranciati della luna dominano lo spazio, accompagnati dall’immensità del Grande Carro.
Seduto accanto a me A. è intento ad accendere il fuoco, cercando di ridar vita a ciocchi di legno e brace.
Finalmente la fiamma rianima la natura morta ai nostri piedi, A., soddisfatto, si volta verso di me e sorridendo mi dice: “Vedi sono le cose nelle quali metti tutto te stesso e nelle quali investi energie che alla fine ti danno maggiori soddisfazioni”.
Annuisco rispondendo al suo sorriso.
Il fuoco ora trasmette il proprio calore anche a noi.
Mi volto verso di lui e inizio a chiedergli come facciano a essere così pacifici e pieni di energia, così empatici con noi e con il mondo, nonostante il loro sia logorato da un conflitto che sta tentando di annullare la loro vita e la loro libertà.
Io sono qui solamente da un mese e spesso la rabbia ha preso il sopravvento sulle altre emozioni.

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- Ore 7:32 rapporto dalle vedette: “In sella”. È il segnale, bisogna terminare i preparativi e tenersi pronti ad entrare in azione.

- Ore 7:38 nuova comunicazione: “Sono all'allevamento di polli; no Army”. Equipaggiamento in spalla e si parte verso il punto d’ingaggio.

- Ore 7:41 ultimo messaggio, come secondo i piani: “Fuori vista”. Le vedette mantengono la posizione, pronte ad intervenire ma ora sta a noi, fra poco avremo l’obiettivo in vista.

- Ore 7:49 dovremmo già vedere l’obiettivo da alcuni minuti, invece sul fianco della collina non si muove una foglia. Con la tensione che increspa la voce, parte la chiamata “Hallo ***, fi jesh?” (Ciao ***, c’è l’esercito?) - “Na’am ehna mniji” (Sì, stiamo arrivando).

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“Faddalu, faddalu!” gracchia T. con la sua voce roca, graffiante e graffiata.
Ci sediamo ed io, ringraziandolo, lo guardo in volto: la keffiah e la lunga barba incorniciano il suo viso, sul quale vedo una rappresentazione del paesaggio alle sue spalle, quasi fosse una mappa.
Le colline della Massafer Yatta si accavallano le une sulle altre in maniera caotica, disorganizzata, selvaggia, mentre le valli si insinuano fra le alture, ricamandosi una via di uscita, disperdendosi in tutto lo spazio.
Il volto di T. imbrunito dal sole e dalla polvere non lascia alcun dubbio, lui È parte di questa terra: le rughe che ricoprono il suo volto sono indistinguibili dalle valli che si ramificano sullo sfondo dietro di lui e solo il grigio della barba spezza una continuità altrimenti perfetta.

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