La prima volta che sono arrivata a Tal Abbas ciò che più mi ha stupito sono stati i bambini.

Tanti, rumorosi, curiosi.
Quando ci sono tornata per la seconda volta, di nuovo i bambini mi hanno colpito.
Sempre tanti, affettuosi, più confidenti.
Il campo in cui Operazione Colomba ha la sua tenda accoglie una ventina di famiglie, che si traduce in almeno una sessantina di bambini.
Tutti quanti vogliono essere presi in braccio.
Tutti giocano a scoppiare le bolle di sapone.
Nessuno dice di no ad una partita di calcio o rinuncia a farsi intrecciare i capelli.
Ognuno di loro ha paure e sogni propri, non così distanti da quelli dei bambini che in questi mesi invadono le spiagge rincorrendosi o costruendo castelli di sabbia.
Eppure sono diversi, spesso conoscono la violenza meglio di noi adulti perché l’hanno vista presto e da vicino.

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Operazione Colomba, gli anni in Libano, i Corridoi Umanitari e la solidarietà in questi anni hanno insegnato molto e aperto tante strade.
Mi hanno insegnato un modo unico di stare nelle situazioni e a quali situazioni dare spazio.
Ho visto un mondo di tragedie causate dalla violenza umana e la solidarietà e la vicinanza che si insinua in queste.
Venti giorni fa sento di un naufragio grosso, partiti dalla Libia in 750 e sopravvissuti in un centinaio, un centinaio di corpi ritrovati e gli altri… dispersi.
Poco dopo parlo con un amico, arrivato con i Corridoi dal Libano anni fa: suo cugino Mohamad, giovane di 24 anni, era lì sopra.
È tra coloro di cui non si hanno notizie.
Diversi amici si muovono e uno di loro accompagna il parente del disperso in Grecia a cercare notizie del cugino.
Lì, con i volontari di Operazione Colombe in Grecia, si scambiano informazioni, si ascoltano e cercano di trovare più strade possibili per capire il da farsi.
Nel frattempo sono arrivata in Libano e capiamo che i genitori di Mohamad sono qua, a un paio d’ore di auto da dove viviamo.
Sono gli zii di un amico, i genitori di un desaparecido nel confine più mortale del mondo, profughi in un Paese che li ospita a fatica, mentre nella loro Patria non possono ancora tornare.
La Colomba è quella spinta che davanti a un dolore non ti fa fuggire ma ti sussurra: avvicinati, prova a sentirne un pezzetto anche piccolo di quello che sentono loro, non fuggire anche se scotta e anche se non hai una risposta.

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Quando mi dicevano che sarei stata solamente in mezzo alla burocrazia e relegata in un ufficio, sapevo che non sarebbe stato così. Sapevo che invece io sarei stata insieme ad altre persone.
Che avrei vissuto in mezzo a loro, con loro, come loro. Non sarei stata relegata in un ufficio a fare rendicontazione. Ed è meglio così. Questo cercavo. Cercavo un posto dove poter capire veramente cosa provano le persone in movimento, com’è la loro vita e quali sono le loro reali necessità. Non sarei mai riuscita a guardarli dall’alto.
Ma soprattutto, anche se ci fossi riuscita - a mantenere il mio status di privilegiata, a starmene sul mio piedistallo, a fare la fighetta mentre le persone vengono deportate e torturare -, probabilmente non avrei voluto. Non avrei voluto continuare a fomentare il divario sociale, economico ed etnico tra me e loro.
È sempre brutto fare questa distinzione: “noi” in opposizione a “loro”. Noi: bianchi, occidentali, liberi e fortunati. Loro: arabi, meticci, oppressi - dai regimi da cui scappano e dalle loro condizioni di vita. Loro, per i quali la ruota della fortuna gira dalla parte sbagliata. Una delle motivazioni per cui sono partita è proprio questa: azzerare il divario tra “noi” e “loro”. O almeno provarci. Accompagnarli verso un mondo in cui i bambini possano andare a scuola, imparare l’arabo, la matematica, l’inglese, le scienze e la letteratura. Un mondo in cui i padri non siano obbligati a lasciare la scuola - quando fortunati - in terza superiore per andare a lavorare. Un mondo in cui i bambini possano essere bambini.

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K. si porta la mano al petto. Le sue dita rimarranno segnate per sempre dalle martellate ricevute durante i nove anni di prigione in Siria.
Sospira cercando di non darlo a vedere.
Il check-point ormai è alle spalle mentre torna a casa in bus.
Durante questo periodo di deportazioni sommarie, aggravatosi nell’ultimo mese, è difficile capire a quanti, allo stesso check-point, è stata invece riservata una sorte diversa.
Il padre di A., 23 anni, è venuto a sapere che suo figlio è stato fermato proprio lì solo perché informato da chi l’ha riconosciuto nella località al confine con la Siria durante la deportazione.
Era con una trentina di persone. Di A. non si è più saputo nulla per due giorni. Poi la notizia.
È in prigione nel Paese da cui è andato via quando aveva 14 anni.
“Non lo possono prendere per la leva militare obbligatoria perché è l’unico figlio maschio. Dovrebbero rilasciarlo, ma chissà che gli hanno fatto. Se gli hanno chiesto dov’è la sua famiglia, dovremo andare via di qua”.
Le deportazione ci sono sempre state, rispettando una qualche procedura che rispondeva alle esigenze della “sicurezza pubblica”.
Ma ora si tratta di veri e propri rastrellamenti arbitrari e ingiustificati dall’effetto immediato.
H. era uscito al mattino presto senza documenti.
“C’è un fattore che arriva all’alba e porta il laban (yogurt) fresco”.
I soldati l’hanno fermato mentre camminava vicino casa sua e l’hanno portato via.

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Immagina una strada, come fosse una via senza nome e senza civici, tutta dritta.
Ai lati, a destra e a sinistra, tutte tende.
La scritta UNHCR sulle pareti e dentro ognuna una famiglia diversa.
Mentre la percorri, bambini che corrono, sorridono e ti salutano.
In terra sassi bianchi sotto i piedi nudi, e in cielo il primo sole che scalda per davvero.
Immagina che a metà della via ti accorgi di una donna, ferma sull’uscio di una tenda, col capo coperto, che ti invita ad entrare assieme ai tuoi due compagni.
Levi le scarpe, ringrazi con un cenno del capo, e ti metti a sedere su di un cuscino che fa da unico separé tra te e il pavimento.
Abiti quella terra da qualche giorno, l’arabo non è intuibile ad un neofita, e le parole che si scambia chi siede con te sono, ai tuoi orecchi, suoni privi di senso.
Allora ti lasci guidare dalla vista, e senza accorgertene ti trovi a fissare quella donna che tiene banco con tanta disinvoltura.

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