Sono tornata in Libano dopo un anno di assenza.
In Italia lavoro come educatrice nel settore adolescenti. Abbiamo appena elaborato un importante documento sull'adolescenza nella mia città dove si parla delle sfide che questa età porta con sé, riguardo al corpo, all'autonomia, all'identità... mi fa strano trovami adesso qui, di fronte a molti 15, 16 e 17enni, e nessun adolescente.
Qui c'è un salto. Qui come in molti altri “altrove”, l'adolescenza non esiste, si salta di netto da un'età in cui si è bambini, a quella in cui si è considerati adulti.
Soprattutto le ragazze.
S. aveva 8 anni quando l'ho conosciuta. Ora ne ha 16. Ha già un matrimonio fallito alle spalle, e una macchia nella fedina "sociale".
È sempre bellissima come la mamma, ma chiusa in casa e mi pare apatica e triste rispetto a un tempo.
Lei la sua sfida per l'autonomia e la scoperta del corpo l'ha potuta sperimentare solo così, sposando il ragazzo che le piaceva, o credeva che le piacesse, o l'unico che ha incontrato... Che poi l'ha chiusa in casa con la suocera. Incapace pure lui di fare il compagno essendo solo un ragazzino.

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Tornati al campo si riprende da dove si è lasciato; dalla presenza e dalla condivisione di tempo, spazi, storie e propositi.
La situazione esasperata che sta provando la popolazione che vive in Libano, maggiormente acuita nelle zone remote del Paese come in Akkar e Arsal, fa il paio con il progressivo logoramento della condizione dei rifugiati siriani.
I tiepidi tramonti che scaldano ancora armoniosi paesaggi di campagna, nelle aree montane, diventano presagio di un altro inverno in tenda o in fabbricati di fortuna all’addiaccio in cui far fronte alle complicazioni che il freddo e il gelo portano con sé.
Sono queste le ambientazioni che trova la Colomba al ritorno tra i rifugiati siriani in Libano.
Ci raccontano di sistematiche riduzioni di aiuti umanitari, una quotidianità precaria immersa nella crisi economica, lo spettro dei ritorni volontari in Siria, la cui idea trova potenzialmente terreno fertile in chi è esausto e sfiancato da tutto questo tempo passato in condizioni disumane.
E poi la latente e infida idea della via del mare che serpeggia costantemente perché apparentemente semplice quanto atroce e pericolosa.

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Rabia, lo abbiamo conosciuto appena arrivati al campo profughi nei primi anni di progetto.
Ogni volontario ha sentito dire nel suo primo giorno in Libano "lui è Rabia, in arabo vuol dire primavera".
È stato detto a me il primo giorno in Libano, e poi l'ho detto io ai nuovi volontari.
Non capivo perché fosse così importante dire subito il significato del suo nome, sembrerebbe prioritario spiegare perché era ridotto pelle ed ossa.
Sarebbe importante sapere perché la sua mamma ha sempre gli occhi stanchi e perché la nonna fuma una sigaretta dopo l' altra, sempre in ansia e sempre all'erta.
Rabia era primavera prima di tutto, un bambino tutto occhi e poca ciccia.
Si commuovevano tutti quando lo vedono, con lui si gioiva e ci si disperava.
Rabia camminava sull'orlo della morte, la sua famiglia con lui e anche noi ci abbiamo provato.
Rabia era primavera, perché come l'inverno sembra sempre di essere vicini al congelamento totale alla morte, poi respirava di nuovo, rideva.

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Giovedì 8 settembre finalmente Mohammad è stato operato.
Ha trascorso un paio di giorni in terapia intensiva e il 9 è stato trasferito nella sua stanza, dove finalmente ha incontrato sua moglie e i suoi bambini.
Abbiamo aspettato l’ultima mezz’ora di intervento in attesa con la moglie di Mohammad, suo fratello e sua sorella.
Erano molto tesi, continuavano a fissare la porta della sala operatoria aspettando che uscisse il medico.
5 ore di attesa sono lunghe ma quando quella porta si è aperta ed il chirurgo ha detto “kullo tamam, alamdulillah” (tutto bene, grazie a Dio) i loro visi si sono immediatamente rasserenati.
Assieme a loro abbiamo condiviso questa gioia e mangiato dei dolcetti per festeggiare la riuscita dell’operazione!
La famiglia di Mohammad vi ringrazia moltissimo e noi con loro per aver reso possibile questo intervento.

Grazie!

Le giornate qui in Libano sono scandite da visite e incontri.
Ogni incontro è un bicchiere di tè, mate, caffè... ogni bicchiere è una storia.
Mi viene in mente un detto yiddish "talvolta abbiamo bisogno più di una storia che di cibo".
Anche se certamente il cibo serve, e in quest’ultimo periodo serve più che mai.
Trovo che ci sia qualcosa di depurativo nei racconti di queste donne che, a volte proprio a fiumi, ci riversano le loro vicissitudini, prima e dopo la guerra.
O meglio prima con la guerra ai missili del regime e ora con la guerra alla miseria.
Forse narrare, ripetere, aggiustare la storia, ripeterla ancora è un modo per trovare un senso, per darsi un senso e tenere insieme i pezzi. Forse.
Il nostro amico Sheik Abdo dice che nel peace building le relazioni sono fondamentali.
"Possiamo dire che sono più importanti del cibo. Durante una guerra se hai cibo e acqua ma nessuna relazione non puoi sopravvivere".
Io qui lo sento che le relazioni sono davvero fondamentali. Sento tanta ricchezza in questi incontri, che mi toccano nel profondo e che sono quello che dà un senso profondo alla vita qui.

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